È ormai da diversi anni (precisamente dal 2016) che l’Università di Modena e Reggio Emilia ha attivato il progetto di terza missione denominato “Quasi amici“. Il progetto, nato da un’idea del Prof. Loris Vezzali, Professore ordinario di Psicologia sociale e già Coordinatore della Sezione di Psicologia sociale dell’AIP, è stato inizialmente svolto in collaborazione con i gruppi scout di Carpi ed è poi proseguito con la partecipazione di una ONLUS del territorio (Il Tesoro Nascosto – associazione genitori figli con disabilità) e delle AUSL di Reggio Emilia e di Carpi, attraverso il coordinamento della Dottoressa Veronica Margherita Cocco, che è anche componente affiliata del Comitato esecutivo della Sezione di Psicologia sociale dell’AIP.
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Il progetto “Quasi amici” ha come obiettivo principale quello di promuovere l’inclusione sociale dei giovani con disabilità, offrendo loro la possibilità di socializzare e stringere amicizie con coetanei con e senza disabilità. Un aspetto innovativo del progetto è il coinvolgimento degli studenti universitari, tanto che la partecipazione al progetto è al momento a disposizione come attività formativa a scelta per gli studenti e le studentesse di quattro corsi di studio dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Gli studenti e le studentesse che prendono parte al progetto ricevono una formazione sulla disabilità e sulle sue conseguenze psicologiche e relazionali mediante un corso online della durata di 20 ore offerto da docenti Unimore, ma sono anche protagonisti attivi di una parte esperienziale della durata di tre mesi, durante la quale realizzano incontri regolari con i loro “quasi amici” in coppie o piccoli gruppi. Le attività proposte variano dagli incontri sociali agli eventi ricreativi e ludici, aiutando così i partecipanti a superare timidezze e paure, e finendo per far nascere dei legami significativi che si estendono e si consolidano ben oltre la durata del periodo di adesione al progetto. Sicuramente si tratta di un modo partecipato e innovativo per combattere l’isolamento sociale che molti ragazzi con disabilità vivono quotidianamente. L’iniziativa è lodevole per diversi motivi. Prima di tutto, offre ai giovani con disabilità l’opportunità di vivere esperienze che altrimenti potrebbero essere loro precluse. Questo tipo di inclusione non solo migliora la loro qualità della vita, ma ha anche un impatto positivo sulla loro autostima e sulla percezione di sé. Questo non solo arricchisce la vita dei giovani con disabilità, ma fornisce anche agli studenti un’esperienza formativa preziosissima, in cui i costrutti teorici e le conoscenze scientifiche studiate sui libri possono essere sperimentati in prima persona, e in cui l’intervento prende vita nella quotidianità, con un’importante ricaduta sociale in direzione di una positiva trasformazione degli atteggiamenti e della mentalità nella popolazione più ampia. Il progetto “Quasi amici” si inserisce perfettamente nel concetto di terza missione universitaria, dimostrando in un modo esemplare come sia possibile per la psicologia accademica oltrepassare i confini convenzionali dell’università per apportare contributi importanti al benessere sociale e culturale della società. Questo progetto va infatti oltre le tradizionali attività di insegnamento e ricerca, ponendosi come ponte tra l’università e la comunità, con un impatto concreto e positivo.
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Durante la pandemia di COVID-19, “Quasi amici” ha dimostrato una grande capacità di adattamento, ampliando la propria offerta con attività online per mantenere il contatto tra i partecipanti. Questo ha permesso di continuare a sostenere i giovani con disabilità anche in un periodo di restrizioni sociali, dimostrando la resilienza e la flessibilità del progetto. Inoltre, l’università ha ulteriormente arricchito il progetto potenziando il corso di formazione online gratuito, offerto a studenti e studentesse (obbligatorio per poter prendere parte al progetto) accessibile a chiunque voglia approfondire il tema della disabilità e conoscere meglio l’iniziativa. Il progetto è ora caratterizzato da un’integrazione strategica tra la componente in presenza e quella online (bacheche, forum, video-diari), che permette di avvantaggiarsi della penetrazione dei mezzi digitali favorendo un approccio progressivo utile all’instaurarsi delle relazioni umane. Tutto ciò si è dimostrato particolarmente utile per diffondere la consapevolezza e le competenze necessarie per interagire in modo positivo e costruttivo con le persone con disabilità. Il progetto sta infatti avendo un impatto tangibile non solo sui partecipanti diretti, ma anche sulla comunità, promuovendo valori di altruismo, inclusione e partecipazione attiva. Il modello di “Quasi amici” si è da poco esteso anche all’Università di Verona ma potrebbe essere replicato in tante altre università e contesti, ampliando ulteriormente il raggio d’azione della terza missione in psicologia e dimostrando il valore della ricerca come base di partenza per la realizzazione di interventi ad alto valore trasformativo per la nostra società.
A Loris Vezzali e a Veronica Margherita Cocco, abbiamo posto alcune domande sul progetto, la sua storia e i suoi sviluppi. Ecco le loro risposte.
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Luca Tommasi: “Innanzitutto complimenti ad entrambi per il progetto, davvero bello e riuscito! Immagino che il lavoro svolto non sia stato affatto semplice: quando e come è nata l’idea?”
Loris Vezzali: “L’idea ci è stata proposta nel 2015 da Nelson Bova, all’epoca Presidente dall’associazione “Il Tesoro Nascosto”. Insieme, si sono anzitutto definiti i “veri” obiettivi: non quello apparente di creare un’amicizia (che non si può evidentemente pianificare a tavolino), bensì aumentare il senso di auto-efficacia e l’autostima delle persone con disabilità, potenziare le loro competenze sociali, contribuire alla loro graduale indipendenza (oltre che naturalmente promuovere atteggiamenti positivi e comportamenti virtuosi verso la disabilità da parte degli studenti universitari). In primo luogo si è cercato di agire anzitutto portando una expertise di ricerca nel campo dell’inclusione sociale adattando metodologie consolidate ad attività pratiche quotidiane. Da un punto di vista formativo, si è pensato che fosse importante una formazione interdisciplinare per i partecipanti senza disabilità, rispetto ad aspetti quali modalità di interazione adeguate o gestione di eventuali dinamiche familiari complesse dei giovani con disabilità. Per “standardizzare” tale formazione e renderla facilmente fruibile, si è creato un corso di formazione online a cui tutti devono prendere parte prima di essere abbinati alla persona con disabilità. Il fatto di proporre la partecipazione a studenti universitari ha da un lato garantito la sostenibilità del progetto, dall’altro ha consentito agli studenti di mettere in pratica quanto appreso nei corsi universitari in un’esperienza di stampo universitario ma soprattutto di vita. La pandemia ci ha poi spinto a migliorare ancora di più il progetto, utilizzando anche il digitale per creare una vera e propria comunità.”
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LT: ”Se per realizzare le caratteristiche operative del progetto avete fatto ricorso ad evidenze scientifiche, quali di esse sono risultate essere più importanti o addirittura determinanti?”
Veronica Margherita Cocco: “Da studiosi della riduzione del pregiudizio, sicuramente la letteratura relativa all’ipotesi del contatto di Allport e i suoi recenti sviluppi (come il contatto indiretto) hanno avuto un ruolo centrale. Si è trattato di tradurre aspetti teorici in attività quotidiane, come giochi volti a ridurre l’ansia tipicamente associata agli incontri intergruppi, offrire spunti per cooperare e raggiungere obiettivi comuni, sviluppare strategie per fare in modo che i/le partecipanti si vedessero come persone con lo stesso status, piuttosto che con status diverso (come può accadere ad esempio nelle dinamiche operatore-paziente, o dovunque ci sia una persona che svolge il ruolo di guida nei confronti di un’altra). Parallelamente, è stato importante incoraggiare assunzione di prospettiva ed empatia, e favorire tecniche per la formazione di un senso di gruppo e di comunità. Una delle sfide principali è stata avvalersi di più modelli e teorie complementari, combinandole in un unico intervento finalizzato a trasformare la teoria in pratiche operative.”
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LT: “Il progetto è sicuramente una best practice di terza missione: che tipo di accoglienza e supporto ha avuto, sia da parte della vostra università che del territorio?”
VMC: “UNIMORE ha da subito accolto il progetto molto favorevolmente, con i vertici che anche di recente si sono messi a disposizione per capire come potenziare la partecipazione e allargare il progetto a tutto l’ateneo. Anche il territorio, incluse le AUSL, ha compreso da subito le potenzialità del progetto, con varie istituzioni/associazioni che hanno intavolato un dialogo per entrare nel network. Tuttavia, mi sento di dire che complessivamente l’accoglienza è stata ambivalente. Sebbene apparentemente semplice, il progetto nasconde notevoli complessità. Tra queste, un aspetto determinante è la sostenibilità, considerata nel senso della continuità della relazione per le persone con disabilità. In particolare, sebbene formalmente si garantisca un solo abbinamento per ogni persona con disabilità partecipante (dunque, tre mesi di relazione), è fondamentale garantire una continuità negli abbinamenti: se l’obiettivo è aumentare la fiducia di poter avere amici della persona con disabilità, interrompere le relazioni dopo pochi mesi potrebbe rivelarsi un boomerang. Dunque, per ogni persona disabile che partecipa al progetto, sarebbe ideale identificare almeno quattro studenti universitari disposti a subentrare l’uno all’altro in un lasso di tempo di medio-lungo periodo. Questo permetterebbe di garantire un anno di abbinamenti all’interno del progetto, favorendo così un aumento del senso di auto-efficacia dei partecipanti rispetto alla possibilità di instaurare amicizie. Come ulteriore esempio, si consideri che non basta abbinare persone con e senza disabilità, bensì occorre monitorare continuamente la qualità del rapporto, le dinamiche di gruppo complessivo per stimolare e mantenere alto il senso di comunità, rivolgere un’attenzione costante ai conflitti che spesso possono emergere. Per ovviare a ostacoli come questo, serve notevole motivazione, ma anche risorse importanti, come persone che dedichino un tempo non indifferente al monitoraggio del progetto. Lo scontro con queste difficoltà è spesso determinante, in quanto il costo per le istituzioni e associazioni diventa spesso notevole. Comprensibilmente, come in tutte le cose, c’è un dare e un avere: il progetto restituisce risultati straordinari, ma richiede anche un impegno straordinario, cosa che purtroppo pochi possono e/o vogliono sostenere.”
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