Indice
- Introduzione
- Scenari demografici
- Prospettive teoriche e Psicologia clinica dell’invecchiamento
- Vivere bene invecchiando: Accenno alle principali sfide della fragilità, disabilità e non-autosufficienza
- Promozione della salute psicologica nell’anziano: Modelli e interventi
- Salute mentale nell’invecchiamento: Uno sguardo d’insieme
- Le terapie psicologiche nella cura dell’anziano
- Oltre il potenziamento cognitivo: Il ruolo delle tecnologie per il benessere psicologico dell’anziano
- Valutazione multidimensionale e Psicologia clinica dell’invecchiamento
- Vivere bene con la demenza: Modelli e interventi
- Prendersi cura di chi cura: I caregiver formali e informali e il ruolo della Comunità
- Il ruolo dello psicologo nei servizi socio-sanitari
- La formazione nella Psicologia clinica dell’invecchiamento
- Conclusioni
- Bibliografia
1. Introduzione
Questo manifesto è stato redatto dal gruppo di lavoro ‘Psicologia clinica dell’invecchiamento‘ che afferisce all’Associazione Italiana di Psicologia (AIP), composto da accademici che lavorano in questo campo che hanno collaborato all’elaborazione dei contenuti evidenziando le dimensioni più rilevanti della psicologia clinica dell’invecchiamento.
Il progressivo invecchiamento della popolazione rappresenta un importante risultato antropologico e sociale, derivante dal miglioramento generale delle condizioni di vita e di salute delle persone. Implica che le persone possono vivere più a lungo e percorrere le diverse fasi della vita, fino alle fasi più avanzate delle possibilità di vita umana.
È quindi importante capire come oltre che vivere più a lungo si possa vivere “soggettivamente bene” e con una buona qualità di vita, autonomia e indipendenza, seppure con patologie e/o condizioni di salute disabilitanti. Per raggiungere questo obiettivo, la psicologia clinica offre teorie, metodi e strumenti per garantire un invecchiamento in salute, così come una cura adeguata e tempestiva in caso di esordio di condizioni patologiche.
Come fase del ciclo di vita, l’invecchiamento può essere accompagnato da transizioni, continuità, adattamenti, apprendimenti, ruoli e relazioni (Baltes, 1991, Baltes and Baltes, 1990, Baltes, 2006). Qualora l’invecchiamento si accompagni a una sofferenza, essa può e deve essere affrontata ed elaborata attraverso le conoscenze, le pratiche e gli strumenti propri della psicologia clinica.
Prendersi cura dell’anziano implica prendersi cura della sua sofferenza psicologica nel dover affrontare lutti, perdita di capacità e abilità, nonché fronteggiare le molteplici sfide delle malattie croniche e della non-autosufficienza ed anche affrontare transizioni, continuità, adattamenti ed apprendimenti.
Prendersi cura dell’anziano implica anche prendersi cura dei suoi familiari e dei caregiver spesso oberati dal lavoro di cura, in assenza di adeguati aiuti dall’esterno.
Si ritiene importante sottolineare la necessità del superamento di una visione riduttiva dell’invecchiamento per sollecitare un’idea di salute che comprenda un’accezione non rivolta prioritariamente agli aspetti sanitari o propri della patologia. In quest’ottica, sembra opportuno considerare, oltre all’autosufficienza funzionale, anche gli aspetti emotivi e cognitivi che riguardano altre dimensioni della vita, permettendo così di includere anche aspetti positivi.
Solo se la persona resta o ridiventa davvero protagonista della sua esistenza e delle possibilità, seppure ridotte, di condivisione e di relazionalità può aspirare a migliorare la propria qualità di vita, in modo che il processo di invecchiamento diventi flessibile e con aspetti ancora modificabili, e non sia invece prestabilito, immodificabile ed eterodiretto.
Ciò detto, è facile intuire come il tema della salute psicologica dell’anziano e del suo contesto meriti maggiori investimenti a vari livelli: sanità pubblica, politiche comunitarie e formazione universitaria adeguata della nuova generazione di psicologi e altri professionisti sul tema.
Il presente manifesto è stato redatto dal gruppo di lavoro dell’Associazione Italiana di Psicologia, denominato ‘Psicologia clinica dell’invecchiamento’, formato da docenti ed esperti in questo ambito che hanno collaborato a elaborare i contenuti evidenziando le dimensioni della psicologia clinica dell’invecchiamento basati sull’evidenza.
L’obiettivo è quello di presentare i diversi ambiti di interesse e applicativi importanti per la psicologia clinica delineando i potenziali contenuti senza essere esaurienti, ma avviando piuttosto un processo di riflessione che ci si auspica possa essere arricchito dai continui progressi della scienza.
Entrando nel dettaglio, ogni paragrafo si caratterizza per la presentazione iniziale della tematica e i motivi a sostegno della sua rilevanza; la descrizione delle principali teorie e dimensioni da valutare all’interno della logica della complessità, nonché degli strumenti e interventi specifici in ambito psicologico clinico.
2. Scenari demografici
Secondo la recente stima dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, 2020), entro il 2030 gli over 60 rappresenteranno un sesto della popolazione mondiale, con un raddoppio entro il 2050. Seguendo questa proiezione, il numero degli over 80 triplicherà entro il 2050, superando la cifra di 425 milioni. Sebbene questi dati siano da un lato un segnale incoraggiante, in quanto rappresentano una chiara conseguenza dei progressi della medicina, e di un generale miglioramento delle condizioni di salute della popolazione, dall’altro rappresentano una fonte di riflessione.
All’aumento dell’aspettativa di vita, tuttavia, corrisponde solo un parziale aumento dell’aspettativa di vita in salute. Di norma, l’allungamento della vita porta con sé la necessità di convivere con patologie e comorbidità età-correlate, a volte invalidanti, a volte presenti solo sotto forma di fastidio minore (Pili & Petretto, 2020, Petretto & Pili, 2022).
Analizzando l’invecchiamento si possono definire due traiettorie evolutive: “ageing with disability” e “disability with ageing” (Verbrugge & Jette, 2002, Verbrugge et al., 2017, Petretto & Pili, 2022). La prima traiettoria rappresenta coloro che hanno incontrato patologie e condizioni di salute disabilitanti nelle prime fasi della loro vita (o durante l’adolescenza o nelle prime fasi della vita adulta) e che, grazie all’aumento dell’aspettativa di vita, possono ora vivere più a lungo e quindi affrontare le fasi più avanzate della vita. La seconda traiettoria si riferisce a coloro che, in virtù dell’aumento generale dell’aspettativa di vita, incontrano patologie e condizioni di salute disabilitanti solo nelle fasi più avanzate della loro vita.
Tra le patologie che caratterizzano l’invecchiamento, specie nei paesi industrializzati, ma in crescente ascesa anche negli altri, le patologie non trasmissibili o causate da agenti patogeni infettivi, le “Non-Communicable Disease” (NCD), sono in crescente ascesa. Esempi di queste patologie sono i deficit di udito e vista, il diabete, l’osteoartrite e l’osteoporosi, le patologie cardiovascolari e quelle neurodegenerative, come la malattia di Parkinson e di Alzheimer. Le NCD hanno un impatto decisamente negativo sulla qualità della vita dei pazienti e dei loro familiari, oltre che sulla società. Inoltre, secondo un recente report dell’OMS (2021), le NCD causerebbero la morte di 41 milioni di persone ogni anno, ovvero il 71% dei decessi globali, con circa 26 milioni di morti negli individui over 70.
In questa prospettiva, diventa dunque cruciale intervenire sia sulla prevenzione sia sulla riduzione della disabilità e delle limitazioni funzionali associate a queste patologie, promuovendo quello che viene definito dall’OMS come “invecchiamento in salute”, ovvero il tema del decennio in cui stiamo attualmente vivendo (2020-2030).
Nel documento che descrive il piano per la decade corrente, l’OMS propone quattro strategie di azione altamente interconnesse. La psicologia clinica dell’invecchiamento, di cui i capitoli successivi rappresentano il manifesto, ha un ruolo decisivo in queste strategie. Infatti, essa può intervenire sull’aumento delle conoscenze e della consapevolezza circa i cambiamenti psicologici legati all’età, ma anche nella creazione di nuovi strumenti per la loro valutazione e misurazione, nello sviluppo di programmi per la promozione della salute e la prevenzione, e nella progettazione di trattamenti e interventi di tipo individuale, sociale e culturale. Si tratta di azioni volte a ridurre l’impatto delle NCD stesse sulla qualità della vita degli individui, e quindi volte al raggiungimento dell’obiettivo che viene definito “ageing well with chronic disability”, ovvero vivere bene con le patologie croniche.
Il passaggio tra “ageing with disability” e “ageing well with chronic disability” è duplice ma cruciale. L’aggiunta dell’argomento cronicità scaturisce dalla necessità di considerare che le traiettorie di invecchiamento predispongono alla trasformazione delle problematiche in cronicità. L’aggiunta dell’argomento ben-essere è legato alla verosimile possibilità di poter vivere gli anni della vecchiaia in maniera positiva e proficua, nonostante le difficoltà che gli stessi anni portano con sé.
3. Prospettive teoriche e Psicologia clinica dell’invecchiamento
Per capire i processi legati all’invecchiamento, occorre fare un accenno ad alcune tra le teorie più significative sugli aspetti psicologici relativi all’invecchiamento in salute. Queste possono essere suddivise orientativamente in due categorie. La prima è di carattere generale e interessa lo sviluppo dell’individuo lungo tutto l’arco di vita. La seconda fa riferimento alle specificità dell’adattamento e del coping correlati con i cambiamenti e le sfide dell’invecchiamento.
È Erickson (1950) a porre le basi per una prospettiva teorica che considera l’intero ciclo di vita delineando specifici stadi dello sviluppo accompagnati da specifiche crisi psico-sociali. Egli individua per l’età anziana una specifica tensione tra due poli, quello della preservazione dell’integrità e della disperazione, la cui sintesi porterebbe allo sviluppo della saggezza e di un coinvolgimento distaccato. Nella prospettiva del ciclo di vita, secondo Baltes e la sua proposizione dei meccanismi di selezione, ottimizzazione e compensazione (SOC; Baltes & Baltes, 1980), un buon invecchiamento dipende dalle capacità di ogni individuo di compensare le limitazioni e le perdite connesse all’avanzare dell’età, sul piano cognitivo ed emotivo, attraverso lo sviluppo di strategie funzionali riguardanti la selezione delle attività e degli obiettivi, il continuo lavoro di ottimizzazione delle capacità ed eventualmente la compensazione delle abilità non disponibili con altre possibili. Tutto ciò può essere riassunto con l’espressione: “fare il meglio che si può con quello che si ha”.
Tra le prospettive teoriche che si sono focalizzate maggiormente sui cambiamenti e adattamenti necessari nella vecchiaia, Peck (1956) propone il concetto di “gerotrascendenza” e individua tre compiti principali associati alle capacità di adattamento dell’anziano. Il primo compito riguarda il pensionamento e la relativa ri-definizione del proprio valore personale grazie al mantenimento di interessi, attività e relazioni. Gli altri due compiti hanno a che fare con l’accettazione delle malattie – e, più in generale, dei cambiamenti nell’organismo associati alla vecchiaia – e della morte. Diverse, inoltre, sono le formulazioni teoriche che ruotano attorno al concetto di “Disengagement” e “Re-engagement” nelle quali il centro dell’attenzione riguarda la progressiva riduzione del coinvolgimento dell’anziano nei contesti sociali e relazionali che è considerato funzionale e a protezione del sé. Ad esempio, la teoria del disimpegno (Cumming & Henry, 1961) e quella della selezione socio-emozionale (Carstensen, 1992). Interessante è la teoria più recente di Kahana e colleghi (2002) focalizzata sulla proattività dell’anziano capace di intervenire sul proprio ambiente. Cruciali sono le risorse interne, quali autostima, senso di efficacia personale, una buona motivazione nell’investire il proprio tempo in attività fisiche; e le risorse esterne come disponibilità economica, di una rete sociale e l’utilizzo delle nuove tecnologie.Questi approcci teorici specifici, insieme ad altre prospettive teoriche presenti nell’ambito della psicologia clinica, offrono una base per la comprensione e per l’elaborazione di strumenti e interventi specifici per promuovere il benessere e contenere la sofferenza delle persone anziane.
4. Vivere bene invecchiando: Accenno alle principali sfide della fragilità, disabilità e non-autosufficienza
Riprendendo quanto si è iniziato a delineare nel presente manifesto, la psicologia clinica dell’invecchiamento offre metodi e strumenti per la presa in carico e la cura della persona anziana al fine di accompagnarla verso un progressivo adattamento ai mutamenti del proprio stato di salute, promuovendo una migliore consapevolezza dei propri bisogni e delle proprie risorse per soddisfarli. In tale prospettiva, appare sempre più necessario un approccio integrato e multidimensionale alla valutazione prima, e al trattamento in seguito, dell’anziano fragile o a rischio di fragilità.
La fragilità rappresenta una condizione sindromica età-correlata, caratterizzata da un’aumentata vulnerabilità a stressors esterni e/o interni, a causa di un’alterazione delle riserve omeostatiche dell’organismo che comporta una ridotta capacità di reagire a eventi avversi. Tale vulnerabilità espone l’anziano a un aumentato rischio di outcome negativi, tra cui la progressiva riduzione dell’autonomia nello svolgimento delle attività quotidiane, l’istituzionalizzazione e la morte (Clegg et al., 2013). Questi elementi vanno considerati in quanto utili sia al riconoscimento della fragilità che all’articolazione di un progetto di cura tarato sulle sue specifiche dimensioni.
In un’ottica multidimensionale, la componente psicologica è stata suggerita parte integrante del costrutto della fragilità, arricchendone la definizione e la promozione di interventi mirati (Gobbens et al., 2010). In tale contesto, la psicologia clinica assume un ruolo rilevante nel definire e descrivere la relazione tra invecchiamento, fragilità e disabilità, ponendo l’accento su costrutti quali compiti evolutivi, transizioni, identità, ruoli, differenze individuali, motivazione e autostima, resilienza, strategie di coping, capacità di adattamento, nonché sull’intreccio tra le variabili succitate e fattori di protezione e di rischio (individuali, relazionali, sociali e comunitari).
L’adattamento della persona anziana alla condizione di fragilità può essere favorito da diversi fattori di riserva (ad esempio, la riserva cognitiva) e resilienza psicologica (ad esempio, l’ottimismo disposizionale). Tali fattori psicologici sono noti per la loro funzione proattiva, essendo in grado di promuovere l’adozione di comportamenti orientati alla salute, come il mantenimento di corretti stili di vita (ridotto utilizzo di fumo e di alcol, svolgimento di attività fisica, corrette abitudini alimentari) e il rafforzamento delle relazioni sociali.
La dimensione affettiva gioca anch’essa un ruolo fondamentale in quanto influenza il tono dell’umore dell’anziano e, pertanto, deve essere oggetto di una valutazione sistematica. Tra le espressioni di fragilità psicologica connesse ai processi di invecchiamento rientra infatti la depressione (magnificata drammaticamente nell’esperienza della solitudine), che si caratterizza per un vissuto di rinuncia esistenziale connesso sia alle attese di vita ridotte dell’anziano che ai messaggi di scarsa utilità provenienti dall’ambiente. Nel guardare l’anziano nella sua globalità, la psicologia clinica valorizza l’aspetto relazionale e affettivo della persona, quale elemento che sostiene la volontà di vivere dell’anziano connesso alle sue caratteristiche di personalità ed esperienze individuali.
Arricchire la valutazione multidimensionale dell’anziano anche con tali componenti psicologiche appare necessario, oltre che utile ai fini prognostici e terapeutici, per proporre interventi personalizzati e basati sui punti di forza dell’anziano. La finalità di tali interventi è orientata verso la prevenzione primaria e secondaria, allo scopo di migliorare la qualità della vita della persona anziana e preservare e mantenere più a lungo nel tempo la sua autonomia e indipendenza. Appare altrettanto utile rinforzare i processi caldi della cognizione, quali la motivazione e il senso di autoefficacia nel padroneggiare l’ambiente e le situazioni.
Nell’anziano in generale, e soprattutto nell’anziano fragile, anche le emozioni hanno una rilevante funzione di adattamento, ed essendo goal-directed esse guidano il comportamento, favoriscono i processi decisionali e influenzano la qualità delle relazioni interpersonali. Promuovere un’adeguata regolazione delle emozioni appare utile soprattutto nella prospettiva di una progressiva riduzione dei livelli di autonomia e autosufficienza, quando l’anziano dovrà accettare la necessità di supporto da parte di un caregiver senza che questo possa minare il senso di identità.
5. Promozione della salute psicologica nell’anziano: Modelli e interventi
Con l’allungamento della vita, perché questa possa essere di qualità, e quindi essere capace di incarnare i dettami dell’invecchiamento di successo (Havighurst, 1963; Baltes e Baltes, 1990; Rowe e Kahn,1998), occorre ragionare in termini di attività (Regione Piemonte, IUHPE e ICHE, 1997; Grano e Lucidi, 2005).
La psicologia clinica, oltre alle attività di prevenzione tese ad anticipare/minimizzare condizioni di malessere, disagio o franca patologia, considera altrettanto importanti le attività promozionali, volte a promuovere adeguati livelli di conoscenza e consapevolezza riguardo ai temi della salute psicologica dell’anziano (psicoeducazione), e/o intervenendo per costruire/ricostruire la capacità di percepire, progettare e implementare le “cose positive” della vita. Va sottolineato che, nella prospettiva del ciclo di vita, promozione e prevenzione non devono riguardare solamente i soggetti della terza età, bensì diventare parte di un bagaglio culturale autenticamente intergenerazionale che coinvolge tutti: coloro che rispondono alle logiche dell’output produttivo: il lavoro, e coloro che si trovano a dover far fronte all’input evolutivo, lo studio. Tali obiettivi sono perseguibili nell’ambito di opportune politiche comunitarie.
Entrando nel dettaglio dell’azione promozionale, occorre valorizzare il Lifelong & Lifewide Learning (LLL), ormai affermatosi quale strumento culturale ottimale tramite corsi, associazioni, conferenze, gruppi d’incontro, al fine di potenziare varie abilità/capacità (cognitive, emozionali, relazionali, socializzative) favorenti un invecchiamento attivo e in salute (Peirone e Gerardi, 2012; Cesa-Bianchi, Cristini et al., 2014; Peirone, 2015).
Nell’ambito della psicologia clinica, tra le strategie adottate per promuovere la salute psicologica dell’anziano, rientrano la promozione di:
a) attività fisica (Saccomani, 2006);
b) attività psichica “fredda”, cioè di tipo mentale (abilità cognitive: percezione, pensiero e memoria) (De Beni et al., 2008a e 2008b);
c) attività psichica “calda”, cioè di tipo emozionale e motivazionale (sensazioni positive e spinte proattive) e relazionale/socializzativo (comunicazione e spinte prosociali) (De Beni et al., 2009).
E’ altresì importante che l’anziano possa riconoscere e allenare le proprie potenzialità creative nelle diverse condizioni di aggregazione (gruppi di anziani e associazioni, ad esempio), ove il gruppo guidato da un facilitatore rappresenta una risorsa in grado di valorizzare capacità individuali e interessi culturali.
Inoltre, in linea con le attività sopramenzionate, va considerato come l’uso di computer e smartphone da parte degli anziani possa essere fattore protettivo e prodromico di un buon invecchiamento (Riva, Ajmone Marsan e Grassi, 2014).
6. Salute mentale nell’invecchiamento: Uno sguardo d’insieme
Durante l’invecchiamento può essere sperimentato un numero di disturbi legati alla salute più alto rispetto all’intero ciclo di vita. Questi disturbi sono a insorgenza tardiva (>65 anni) e vanno distinti da quelli che emergono in età adulta e persistono durante la vecchiaia.
I disturbi della salute mentale a esordio tardivo possono essere accompagnati da un deterioramento cognitivo e funzionale, con riduzione dell’autonomia nelle attività di vita quotidiana (Friedman & Ryff, 2012; Makovski et al., 2019). Di pari impatto sono l’esclusione sociale, il carico di sofferenza fisica e psichica, le separazioni legate alla scomparsa dei propri cari, ovvero, fattori che favoriscono l’instaurarsi di una serie di problematiche psicologiche e condizioni patologiche non sempre facili da affrontare (Maier et al., 2021). Molti degli eventi che accompagnano l’età avanzata possono alterare la qualità di vita ma soprattutto possono compromettere lo stato di salute mentale, innescando a volte la comparsa di sintomi neurologici o psichici, tra cui non infrequenti sono gli episodi depressivi.
L’Oms ha affrontato recentemente il tema della salute mentale, adottando nel 2012[1] il documento che prende in considerazione vari aspetti dei disturbi mentali e dei disturbi neuropsichiatrici tra cui la malattia di Alzheimer, che viene riconosciuta come “importante causa di morbidità” con un pesante contributo al carico di malattia attribuibile alle patologie non-trasmissibili. La risoluzione evidenzia anche come i disturbi mentali siano spesso associati a patologie croniche e ad altri fattori sanitari e sociali, quali la povertà, l’abuso di sostanze stupefacenti e il consumo dannoso di alcol.
La prevalenza di sindrome depressiva è pari a circa il 12% negli ultra 65enni europei, con livelli più alti nelle donne e nei Paesi mediterranei. In Italia, la depressione colpisce circa il 30% degli uomini e il 50% delle donne (Dalle Carbonare et al., 2009). Analizzando i livelli di gravità dei sintomi depressivi registrati nel corso del tempo nella coorte Ilsa, lo studio ha confermato che la gravità dei sintomi depressivi è significativamente associata a un incremento della mortalità (pari a circa il 40%), con un rischio sostanzialmente raddoppiato negli anziani con sintomi gravi, quali ad esempio, apatia, anedonia, sintomi psicosomatici, ritiro sociale. La depressione maggiore, e ancor più i sintomi depressivi (Sd), sono condizioni particolarmente frequenti tra gli anziani. La prevalenza è più alta nelle donne (circa 50%) che negli uomini (circa 30%), con una frequenza di sintomi gravi circa tre volte più elevata nelle donne, con frequenze più elevate nei Paesi dell’Europa meridionale (Dalle Carbonare et al., 2009; Minicucci et al., 2002).
Si ipotizza che il calo motivazionale legato all’umore depresso possa influenzare stili di vita non salutari, inattività fisica, mancato rispetto delle prescrizioni terapeutiche, isolamento sociale e relazionale, condizioni che, a loro volta, possono portare a un deterioramento del sistema neuroendocrino e immunitario, con una riduzione delle funzioni fisiche e cognitive (Soysal et al., 2017).
La relazione tra gli innumerevoli fattori di rischio comportamentali, biologici e funzionali coinvolti nell’associazione depressione-mortalità appare bidirezionale. Tuttavia, poiché la sintomatologia depressiva nell’anziano non è una condizione irreversibile ed è caratterizzata da un andamento fluttuante, è evidente che, sia di pertinenza della psicologia clinica, il compito di potenziare le misure preventive, diagnostiche e terapeutiche da destinare al miglioramento di una condizione così diffusa tra gli anziani (Frost et al., 2019; Jonsson et al., 2016).
Accanto ai problemi marcatamente neuropsicologici e relative degenerazioni su base probabilmente organica, le due sindromi prevalentemente psicodinamiche (trend ansioso e trend depressivo) costituiscono il massimo “punctum dolens” nella fase della vecchiaia, con un range estremamente variabile (nel continuum da lieve/moderato a grave/severo), cosa che impone una sofisticata e sensibile capacità di indagine e intervento. Semplificando: di fronte a simili sfumature (frequenti e disturbanti) una buona capacità empatica risulta doverosa tanto per l’operatore quanto per il ricercatore.
Oltre alla depressione sono spesso riscontrati nell’anziano disturbi del sonno, disturbi d’ansia, psicosi ad insorgenza tardiva (ad esempio, la schizofrenia), delirio, disturbo bipolare, disturbo ossessivo-compulsivo, disturbo paranoideo (Andreas et al., 2017). Inoltre, secondo la rilevazione ISTAT “Decessi e cause di morte”[2], nell’anno 2010 tra i residenti in Italia si sono tolte la vita 3876 persone, di queste il 78% erano uomini. Gli over 65enni rappresentano circa un terzo di tutte le vittime di suicidio e, in questa fascia d’età, la proporzione di anziani è simile per i due generi (34% tra gli uomini e 36% tra le donne).
Alla luce di queste premesse, la psicologia clinica ha di fronte a sé molteplici sfide:
a) accompagnare l’anziano nella transizione dall’invecchiamento normale a quello patologico, con particolare attenzione alla prevenzione della depressione e del deterioramento cognitivo;
b) identificare marker psicologici predittivi di deterioramento in interazione con quelli biologici, al fine di progettare interventi multidisciplinari;
c) implementare strategie di prevenzione psicologica clinica per migliorare la salute e il benessere e promuovere una vita attiva nell’invecchiamento;
d) progettare e validare interventi di prevenzione con l’obiettivo di contrastare i fattori di rischio psicologico e rafforzare i fattori di protezione psicologica per influenzare i processi che possono portare a disfunzioni.
Oltre alle suddette, la psicologia clinica dell’invecchiamento lavora per garantire:
a) la necessaria psico-educazione nelle iniziative di prevenzione che promuovono la salute mentale e prevengono malattie;
b) lo sviluppo di strumenti psicodiagnostici, compreso il supporto informatico o robotico, da utilizzare come valutazione di base per interventi finalizzati alla prevenzione o alla riabilitazione;
c) la progettazione di interventi centrati sul paziente, volti non solo a migliorare le prestazioni cognitive e fisiche, ma anche volti a raggiungere un migliore adattamento psicologico al proprio stato di salute.
7. Le terapie psicologiche nella cura dell’anziano
Più lunga è la vita e più si accumulano, si alternano, si sommano tante condizioni e relativi vissuti esistenziali (Chattat, 2009): fragilità, disagi, stati di malessere, franche patologie. La persona anziana, pertanto, può andare incontro a svariate forme di sofferenza psichica: shock da pensionamento, conflitti nella coppia, morte-lutto-vedovanza, isolamento sociale, emarginazione (etero- e auto-determinata), affaticamento cognitivo e fisico, crollo dell’autostima, senso di inadeguatezza, perdita di motivazione, incapacità progettuale, crisi d’identità etc.
Inoltre, nella stessa persona si possono presentare in contemporanea più problemi, più sintomi, più malattie: il che spinge verso una chiave di lettura di tipo plurale. Si ha pertanto l’anziano polipatologico: da cui derivano la complessità, sia diagnostica sia terapeutica, e quindi la modulazione degli interventi clinici lungo la linea dell’azione “combinata”, psicologica e medico-farmacologica (Isaia, 2018). Occorre procedere con trattamenti sufficientemente “aperti” e flessibili: proprio perché sindromi e malattie “pure” costituiscono l’eccezione e non la regola.
E’ rilevante, infatti, saper leggere la concomitanza e la correlazione che possono esistere fra più fattori di perdita di salute: ciò in quanto la pluralità dei problemi di salute richiede al professionista una ricca conoscenza nosografica, una ricca capacità anamnestica e diagnostica, una creativa capacità di scegliere la terapia o le terapie.
L’invecchiamento si accompagna pertanto a una sofferenza che può e deve essere affrontata ed elaborata attraverso gli strumenti propri della psicologia clinica. Gli obiettivi sono molteplici: il sollievo dei sintomi, il migliore adattamento attraverso la riscoperta di attività e interessi, il mantenimento del maggior livello possibile di autonomia, il miglioramento dell’efficienza mentale etc.
Tra le terapie psicologiche, ad esempio, la terapia della reminiscenza viene largamente utilizzata quale intervento riabilitativo psicosociale che, attraverso l’utilizzo dei ricordi, consente all’anziano di fare un bilancio della propria vita recuperando esperienze emotive piacevoli e stimolandone la memoria (Liu et al., 2021). Tale intervento clinico, valorizzando gli aspetti positivi e soddisfacenti dell’esistenza, consente all’anziano di affrontare l’angoscia della morte, nell’acquisita consapevolezza che essa non possa annullare il valore della vita vissuta.
Ampiamente utilizzati con l’anziano sono i training cognitivi che sono interventi di potenziamento di uno più domini cognitivi, ampiamente diffusi, con il fine di migliorare le performance dell’anziano nella vita di tutti i giorni (De Beni et al., 2008a; De Beni et al., 2008b).
Nel lavoro clinico con l’anziano, trova inoltre ampio impiego la terapia cognitivo-comportamentale che pone il focus sui pattern comportamentali e di pensiero disfunzionali dell’anziano che ne impediscono un migliore adattamento alla propria condizione. Il modello comportamentale vede, nello specifico, la depressione come conseguenza di un’insufficienza di rinforzi sociali e/o di auto-rinforzi per l’anziano che può derivare, oltre che da difficoltà nell’esecuzione delle attività quotidiane, anche da un limitato range di attività disponibili nell’ambiente in cui egli vive (Coda, 2000).
Le terapie psicologiche di gruppo, di varia matrice teorica, trovano la propria indicazione per gli anziani con disturbi dell’umore lieve o lieve-moderato avendo come obiettivi la riduzione dell’isolamento, lo scambio di strategie di problem solving atte a fronteggiare ansie e disagio condivisi, la stimolazione di attività e una maggiore autosufficienza (Coda, 2000).
Per quanto concerne il lavoro psicologico di matrice psicodinamica, esso non può che prevedere un momento ricostruttivo in cui l’anziano possa riprogettare la propria esistenza, tenendo conto dei lutti e della perdita di abilità e attività con conseguente calo dell’autostima e la necessità di riscoprire vecchi e nuovi interessi (Corsa, Vanda e Fattori, 2020). In tale condizione, lo psicologo clinico dovrebbe fungere da oggetto transizionale che favorisca nuovi investimenti esterni e un ridimensionamento delle aspettative giovanili (Spagnoli, 2012).
Tematiche psicologiche di rilievo nel lavoro clinico con l’anziano riguardano, inoltre, l’angoscia della dipendenza da altre persone che può indurre l’anziano a rifiutare ogni forma di aiuto; e l’angoscia della morte, che può essere affrontata positivamente solo se inserita in un percorso di vita che viene percepito come dotato di senso e vissuto nella sua pienezza (Cristini, Porro e M. Cesa-Bianchi, 2011).
8. Oltre il potenziamento cognitivo: Il ruolo delle tecnologie per il benessere psicologico dell’anziano
Nell’ambito degli interventi con l’anziano, l’AgeTech rientra fra i programmi innovativi inerenti la loro salute. Con tale termine, si contemplano le Information and Communication Technologies, la robotica, le tecnologie mobili, l’intelligenza artificiale, i sistemi d’ambiente, i servizi di tele-consulenza, l’Internet of Things, l’ambient assisted living e, in ultimo, le recenti applicazioni nell’ambito della teleneuropsicologia che dimostrano di fornire specifici vantaggi nella gestione personalizzata del paziente anziano anche da remoto.
Le soluzioni per l’AgeTech sono generalmente pianificate per sostenere percorsi di salute, sicurezza e mobilità personale, nonché per promuovere le abilità comunicative del soggetto anziano (Kim et al., 2017). Le tecnologie della salute (health technologies) possono anche includere servizi di tele-consulenza (e-health), diagnostica e sistemi di risposta in situazioni di emergenza (Ollevier et al., 2020), che consentono di facilitare i flussi informativi tra paziente, familiari e professionisti della salute, monitorare parametri psicofisiologici e fornire supporti per più rapidi adattamenti verso corretti stili di vita, concorrendo al senso di autonomia personale e di sicurezza dell’anziano, all’incremento della soddisfazione nell’utilizzo degli strumenti e all’aderenza rispetto al trattamento.
Inoltre, un crescente numero di evidenze sta dimostrando come la tecnologia digitale possa aiutare le persone anziane a mantenere una vitalità cognitiva essenziale per le prestazioni routinarie nelle attività di vita quotidiana ed uscire dall’isolamento e dall’incertezza che la condizione dell’ultima fase del ciclo di vita trascina con sé (Lattanzio et al., 2014). Attraverso la tecnologia, di fatto, si rafforza il contatto con l’ambiente familiare e la comunità di appartenenza, con rilevanti implicazioni per un miglior contrasto alla spesso presente deflessione del tono dell’umore ed al rafforzamento dell’autostima e delle capacità di coping (Fang et al., 2018).
Esperienze di ricerca sulla percezione dell’importanza della tecnologia assistiva hanno messo in evidenza che è la motivazione al cambiamento ad avere maggiore valenza rispetto alle reali capacità di utilizzo ed interazione espresse dal soggetto anziano, delineandola quale leva fondamentale su cui il professionista psicologo che si occupa di invecchiamento deve agire (Tyler et al., 2020).
Data la complessità in tema di compatibilità anziano-utilizzo della tecnologia, il processo decisionale per l’utilizzo di soluzioni tecnologiche può rifarsi all’analisi SWOT (Strengths, Weaknesses, Opportunities and Threats; Leigh, 2009). Per comprendere come la persona interagisca e risponda alle sollecitazioni provenienti dai device e per fornire ai programmatori dei dispositivi stessi informazioni rilevanti in merito alle caratteristiche che il prodotto/servizio deve avere, occorre racchiudere le rivelazioni in un paradigma capace di considerare l’anziano come soggetto attivo, capace di cogliere l’importanza delle opportunità che la tecnologia offre per sfruttarle a proprio favore. In questa prospettiva, il lavoro dello psicologo clinico sarà relativo a guidare i processi decisionali relativi agli aspetti di usabilità ed accettabilità delle soluzioni tecnologiche per le persone anziane e, al contempo, accompagnarle nella gestione attenta e corretta del dispositivo utilizzato.
9. Valutazione multidimensionale e Psicologia clinica dell’invecchiamento
Gli interventi psicologici con l’anziano sono possibili e auspicabili, a fronte di un accurato lavoro di valutazione psicologico-clinica e diagnostica (Chattat, 2004). La valutazione multidimensionale deve mirare a ottenere un quadro generale e articolato dei vari aspetti e processi che contribuiscono a definire il benessere e la qualità di vita della persona. Tale valutazione deve riguardare l’anziano sano per intercettare un eventuale declino cognitivo lieve, o rilevare tutti quei fattori di rischio (per es., ansia, depressione, disturbi del sonno, disturbi cardiovascolari) che possono predisporre a sviluppare declino cognitivo lieve o grave, nonché evidenziare la loro elevata interconnessione.
Deve riguardare tutte le popolazioni che presentano patologie croniche (per es., ipertensione, disturbi cardiovascolari; ecc.; si veda oltre nell’anamnesi) o degenerative (per es., morbo di Parkinson; si veda oltre nell’anamnesi), che presentano un maggior rischio di sviluppare declino cognitivo lieve o grave. È rivolta a tutte le persone che presentano declino cognitivo lieve (Mild Cognitive Impairment; MCI) o vari tipi di demenze con differenti livelli di severità.
In un’ottica preventiva, tale valutazione dovrebbe riguardare le persone over 50, soprattutto per le popolazioni che presentano fattori di rischio per lo sviluppo di demenza (e.g., ipertensione; Forte e Casagrande, 2020; obesità; Ho et al., 2010; malattia di Parkinson; Garcia-Ptacek, S., & Kramberger ). Per perseguire tale obiettivo è necessaria una valutazione multidimensionale che includa dati socio-anagrafici, sugli stili di vita e le abitudini comportamentali, sulle relazioni e interazioni sociali, oltre che sulla condizione psicologica, medica e cognitiva. Tale valutazione dovrebbe seguire un protocollo standard che consenta di superare l’eterogeneità dei sistemi diagnostici adottati (per es. tipo e numero di dimensioni psicologiche e cognitive valutate) che inevitabilmente comporta stime di prevalenza del declino cognitivo in un range troppo elevato (Casagrande et al., 2022).
Nello specifico, per quanto riguarda le informazioni sociodemografiche sarà importante valutare età, stato civile, istruzione, status socioeconomico, occupazione, presenza di compagno/a, figli, fratelli e persone con cui è condivisa l’abitazione, collocazione geografica della residenza.
Nella valutazione degli stili di vita e delle abitudini comportamentali dovrà essere valutata l’attività fisica (come camminare, percorsi per spostamenti, ecc.), l’attività sportiva (come frequentazione di palestre, attività sportive autonome, corsi di ballo e altri sport), il comportamento alimentare, eventuali stili di vita disfunzionali come tabagismo, eccessivo uso di alcolici e dipendenze comportamentali (come eccessivo uso di cellulare, internet, gioco d’azzardo), attività ricreative (presenza di hobby di qualsiasi tipo), uso della televisione (specificando numero di ore, programmi visti), relazioni sociali quotidiane (relazioni con familiari, amici, vicini).
La storia clinica dovrà riguardare aspetti medici, psicologici e psichiatrici e includere anche la valutazione della familiarità per malattia. L’anamnesi dovrà valutare la presenza di patologie mediche croniche (es., disturbi cardiovascolari, ipertensione, ipercolesterolemia, sindrome metabolica, diabete, obesità); patologie neurologiche croniche o pregresse (es., epilessia, ictus, traumi cranici, coma, morbo di Parkinson, parkinsonismo, cefalee, corea di Huntington, Sclerosi Laterale Amiotrofica, Sclerosi Multipla); patologie infettive acute e croniche (es., HIV, encefaliti infettive, epatiti, encefalopatie multiformi, herpes simplex); diagnosi di demenza (es., demenza vascolare, malattia di Alzheimer, demenza fronto-temporale, malattia di Pick, demenza a corpi di Lewy). Sarebbe utile valutare anche l’indice di massa corporea e la pressione arteriosa.
Inoltre, dovranno essere considerati gli aspetti psicologici e psicopatologici attraverso la valutazione di ansia e depressione, personalità e sintomatologia psicopatologica generale (es., rabbia, distress, impulsività eccessiva, aggressività, solitudine, senso di autoefficacia e locus of control). Di interesse l’eventuale presenza di patologie psichiatriche (come psicosi, schizofrenia, disturbo bipolare, disturbi della personalità e disturbo depressivo maggiore) e/o neuropsichiatriche (es., ADHD, disturbi specifici dell’apprendimento, disturbi dello spettro autistico, disabilità intellettive). Andrà inoltre esaminata l’assunzione attuale e cronica di qualsiasi tipo di farmaco (principio attivo o nome commerciale del farmaco, dosaggio e posologia), e andranno raccolte le informazioni sui parametri ematochimici ed eventuali esami di laboratorio effettuati.
Anche la qualità dei disturbi del sonno dovranno essere oggetto di approfondimento, considerata la forte associazione tra questi ultimi e il declino cognitivo (Casagrande et al., 2022). Occorrerà operare per fare una valutazione mediante questionari sulla qualità, durata ed efficienza del sonno, sulla presenza di disturbi nell’organizzazione circadiana del ciclo sonno-veglia, sulla presenza di eccessiva sonnolenza diurna, di disturbi del sonno (es., insonnia, apnee notturne, disturbo del sonno REM, risvegli anticipati, frammentazione del sonno, sindrome delle gambe senza riposo, parasonnie come sonnambulismo, terrore notturno, incubi notturni, bruxismo, narcolessia). In presenza di dubbi si può aggiungere l’uso di un diario del sonno, mentre in presenza di franchi disturbi del sonno si rinvia a una valutazione polisonnografica.
Occorre programmare di valutare l’indipendenza nelle azioni della vita quotidiana (come vestirsi, lavarsi, uso del telefono, accudimento della casa, capacità di fare la spesa, gestione del conto in banca, prendere i mezzi, programmazione di visite mediche, assunzione autonoma dell’eventuale terapia farmacologica), mediante test standard come l’Activity of Daily Living (ADL; Katz et al., 1963) e l’Instrumental Activity Daily Living (IADL; Lawton et al., 1969); il funzionamento cognitivo generale – mediante un test standard come il Mini Mental State-Examination (MMSE, Folstein et al., 1975 ) che consente anche di distinguere fra funzionamento adeguato, deterioramento cognitivo lieve e demenza -, il ragionamento logico-deduttivo mediante test standardizzato (es. le Matrici Progressive di Raven; Raven e Court, 1938), e la riserva cognitiva con particolare riferimento alle informazioni su scolarizzazione, attività lavorativa svolta e attività svolte durante il tempo libero (Nucci et al., 2012).
Laddove necessario, si procede con la valutazione di funzioni cognitive specifiche come la memoria verbale (letterale, semantica e autobiografica) e visuo-spaziale a breve e a lungo termine, le abilità visuo-spaziali e della prassia, il linguaggio e l’accesso lessicale e semantico, l’attenzione selettiva e la vigilanza. Infine, devono essere esaminate le principali funzioni esecutive di base (inibizione cognitiva e motoria, controllo delle informazioni conflittuali del comportamento, flessibilità cognitiva e memoria di lavoro), e le funzioni esecutive di ordine superiore (pianificazione, ragionamento, problem-solving e presa di decisione), considerando come il declino cognitivo lieve e severo sia in particolar modo associato a una compromissione di tutte le funzioni esecutive (Guarino et al., 2019; 2020; Corbo e Casagrande).
La valutazione multidimensionale serve a quantificare limitazioni e deficit dell’anziano rapportandoli alle sue risorse e capacità preservate, al fine di una corretta e personalizzata pianificazione degli interventi. Pertanto, come discusso in precedenza, si dovrà valutare la possibilità di interventi molteplici, multimodali e finalizzati a risolvere le problematiche psicologiche, modificare gli stili di vita e i comportamenti disfunzionali, i programmi di igiene del sonno, e potenziare abilità cognitive singole o multiple. Tutti gli interventi possono avere anche un carattere preventivo o di promozione della salute. La natura della prospettiva multidimensionale implica inoltre la necessità di instaurare una collaborazione con il medico di base e con i medici specialisti per valutare l’opportunità di trattamenti medici in sinergia con gli interventi di ordine psicologico.
In ultimo, per definire l’intervento individuale sarebbe utile valutare un indice di benessere o gravità dato dal rapporto tra le funzioni, i processi, i comportamenti e i parametri deficitari e il numero complessivo di valutazioni effettuate. Tale indice potrebbe essere anche calcolato separatamente per le varie sezioni oggetto di valutazione (per es., sociale, psicologica, cognitiva, medica) .
10. Vivere bene con la demenza: Modelli e interventi
La valutazione multidimensionale e articolata dell’anziano, finalizzata a proporre interventi personalizzati ed efficaci, è fondamentale nell’ambito delle ampiamente diffuse NCD. Tra queste, la demenza è una delle patologie più devastanti, in quanto caratterizzata da una progressiva limitazione delle abilità cognitive, e ciò ha un impatto significativo sul funzionamento quotidiano della persona interessata e coinvolge coloro che se ne prendono cura. La prospettiva bio-medica enfatizza il ruolo della componente neurodegenerativa e la ricerca, in quest’ambito, si è focalizzata sullo studio dei meccanismi biologici del danno e sui farmaci necessari per ridurre o fermare il processo di deterioramento. Questo approccio centrato sulla malattia ha messo in secondo piano una serie di risultanze importanti della ricerca quali la discrepanza tra neuro-degenerazione e clinica; le diversificate traiettorie del deterioramento cognitivo; il ruolo dei fattori che modulano la progressione; la risposta della persona ai cambiamenti determinati dalla malattia; il ruolo della personalità e della storia di vita, e il ruolo del contesto sociale e ambientale con particolare riferimento allo stigma e all’esclusione sociale.
Un gruppo di sintomi, definiti sintomi psicologici e comportamentali (BPSD) manifestati dalla persona con demenza, sono azioni, generate da un contesto, che vanno interpretate in quanto portatrici di senso: è importante quindi trovare modalità di relazione che tengano conto della soggettività della persona, del modo in cui percepisce il proprio corpo, del suo agire nell’ambiente circostante, e soprattutto della qualità e dell’intensità degli affetti che prevalgono in lei. Questo al fine di riconoscere e attribuire significati nuovi e condivisibili alle modificazioni del pensiero, del linguaggio e della condotta dell’anziano. Diverse sollecitazioni invitano a considerare i BPSD non come sintomi ma come manifestazioni affettive e comportamentali.
Conseguentemente a ciò, l’attenzione si è focalizzata sul percorso post-diagnostico che prende avvio dalla comunicazione della diagnosi e in assenza, per il momento, di terapie farmacologiche efficaci propone di mettere in atto tutte quelle strategie e interventi psicosociali che possono promuovere il benessere, la qualità di vita, l’adattamento, l’inclusione sociale e la preservazione della dignità della persona sino al fine vita.
Tutto ciò va sotto il nome di “vivere bene con la demenza”, il cui pioniere è stato Kitwood (1997) che ha sottolineato l’importanza di un approccio alla cura centrato sulla persona, volto al mantenimento della personhood (‘essere persona’) nella condizione di malattia. Secondo il modello arricchito/dialettico della demenza (Kitwood, 1993), questa è rappresentata dalla formula: ‘Demenza = NI + H + B + P + SP’, ove NI sta per compromissione neurologica, H per salute fisica, B per storia di vita, P per personalità, SP per psicologia sociale. Data l’estrema variabilità negli aspetti sopramenzionati, ne consegue che esistono tante esperienze di malattia quante sono le persone con demenza.
Queste prospettive aprono lo spazio ad interventi, definiti psicosociali, che comprendono tipologie di intervento rivolte sia al malato, sia al caregiver (formale o informale), che possono essere indirizzate agli aspetti funzionali, cognitivi, comportamentali, emotivi, socio-relazionali e ambientali dell’esperienza della demenza. Obiettivo di tali interventi è diminuire l’impatto dei sintomi neuropsicologici, mantenendo o migliorando il funzionamento personale, le relazioni interpersonali e il benessere della persona, e riducendone le conseguenze in termini di disabilità sociale (McDermott et al., 2019; Nice, 2018). Tra questi, rientrano principalmente approcci orientati al comportamento (es., challenging behavior), alle emozioni (es., psicoterapia, terapia della reminiscenza), alla cognizione (es., Terapia di Stimolazione Cognitiva), e alla stimolazione sensoriale (es., musicoterapia). In linea con l’approccio di cura centrato sulla persona, questi interventi vanno scelti sulla base delle caratteristiche della persona (storia di vita, preferenze, funzionamento intrapsichico, interpersonale e sociale), piuttosto che esclusivamente sulla patologia o sul grado di compromissione.
Una prospettiva piuttosto recente che trova le sue basi nei lavori di Damasio (2012) permette di rileggere il processo di regressione come una sorta di processo a ritroso: come se il viaggio della vita, avvicinandosi alla fine, riportasse, da un punto di vista cerebrale e dunque inevitabilmente anche affettivo e comportamentale, a sperimentare aree psichiche e affettive nelle quali prevalgono non più le funzioni cognitive superiori, ma quelle più originarie, arcaiche ed essenzialmente corporee.
Le demenze vengono quindi lette come una fase in cui il paziente ritorna a un sentire, e quindi a un vivere e relazionarsi, più improntato da aspetti corporei ed emozionali inconsci, meno controllabili, gestibili e comunicabili. In questo percorso diventa centrale lo ‘sguardo altro’ che fornisce significato e spessore affettivo a questa nuova e ultima fase della vita e permette di dare una lettura più profonda, alternativa rispetto a quella fornita dal senso comune, di quella sorta di ‘regressione’ a stati psicosomatici che sembra caratterizzare il diventare anziani e che va dunque vista non come un’involuzione, ma come la via regia per riconnettersi con quel nucleo originario e corporeo che caratterizza l’individuo nella sua essenzialità e singolarità.
I familiari di una persona anziana spesso reagiscono alla scoperta di una persona diversa da quella che conoscevano con incredulità, spaesamento, dolore, rabbia e sentimenti di impotenza: possono così attivarsi nei caregiver più coinvolti nella cura potenti meccanismi di difesa che ostacolano la possibilità di affrontare in modo adattivo la crisi che ne scaturisce, creando distanza, cecità, incomunicabilità, assenza di sintonizzazione, sentimenti ambivalenti, talvolta anche violenti e distruttivi. Se ben gestito, l’altro diventa in questi casi presenza fondamentale, in quanto assume il ruolo di oggetto ausiliario, vicariante, che può aiutare l’anziano, attraverso una relazione significativa, a riconnettersi con un suo sapere affettivo, rassicurandolo, in questo modo, sul fatto che la sua affettività è preservata e intatta, contribuendo a garantire un senso di continuità all’anziano.
Recentemente si è posta l’attenzione sulla salute sociale delle persone con demenza e dei loro familiari (Vernoiij-Dassen, 2019). Partendo dal modello di salute bio-psico-sociale (Engel, 1977), si è cercato di identificare il ruolo dell’interazione tra soggetto e ambiente, tenendo in considerazione in particolare il funzionamento intrapsichico e relazionale, la rappresentazione sociale della malattia e le risposte ambientali alla persona e alla malattia. Questo approccio cerca di delineare quello che Kitwood ha definito “psicologia sociale maligna” e conseguentemente il ruolo dello stigma e dell’esclusione sociale. Correlato a questo approccio si è sviluppato il modello delle “comunità amiche” delle persone con demenza con l’intento di favorire l’inclusione, la partecipazione e la consapevolezza della comunità rispetto ai bisogni e alle limitazioni delle persone con demenza.
11. Prendersi cura di chi cura: I caregiver formali e informali e il ruolo della Comunità.
A causa del progressivo invecchiamento della popolazione il numero di persone che si prendono cura stabilmente di una persona anziana è in continuo aumento. Si prevede che molti adulti di mezza età e anziani che attualmente non sono caregiver dovranno prestare questo tipo di assistenza in futuro. È dunque necessario mettere in campo delle strategie per far fronte alla straordinaria richiesta di assistenza associata all’invecchiamento.
ll “caregiving”, come insieme delle azioni e atteggiamenti del prendersi cura, viene attuato da “caregiver formali”, ovvero da operatori che svolgono l’attività in modo regolamentato e dietro compenso al domicilio del paziente o presso strutture residenziali, e da “caregiver informali”, ovvero coloro che prestano assistenza ad un famigliare, un affine o anche un conoscente malato o disabile, volontariamente e senza compenso, generalmente nell’ambiente domestico.
È oggi riconosciuto che prendersi cura stabilmente di una persona anziana con malattia e/o disabilità di diverso tipo e gravità costituisce un impegno particolarmente gravoso, sia per le complesse competenze richieste sia per il carico emotivo e fisico che l’assistenza comporta. Numerosi studi documentano l’alto distress emotivo e l’aumentato rischio di disturbi psichici come ansia, depressione, patologie croniche e disabilità nei caregiver rispetto alla popolazione generale nella stessa fascia di età (Chappel et al., 2021; del-Pino-Casado et al., 2021; Kunkle et al., 2021).
Tra i molteplici fattori che possono rendere più gravosa l’assistenza e influire sul benessere del caregiver la letteratura sottolinea i seguenti: gravità della disabilità, sintomi comportamentali e tipo di patologia dell’assistito; intensità e durata del caregiving; genere, grado di parentela, età del caregiver; risorse personali del caregiver (autoefficacia, coping, hardiness, self-compassion); caratteristiche di contesto (accessibilità delle cure e dei servizi, supporto sociale, partecipazione alla vita sociale, accesso a gruppi di autoaiuto, attività creative o di svago). Inoltre, è oggi ampiamente dimostrato che la qualità della relazione caregiver/assistito modula il benessere di entrambi influenzando anche quello dei famigliari (Cristini, 2013; Ejem et al., 2015; National Long-Term Care Study, USA; Vernon et al., 2019).
Per questo motivo il benessere del caregiver è all’attenzione della ricerca scientifica e sono sorte numerose associazioni rivolte alla tutela, sensibilizzazione e formazione dei caregiver. La risposta ai fattori di stress legati al caregiving dipende da molteplici aspetti, alcuni di questi modificabili, dunque passibili di specifici programmi di supporto.
Vista l’importanza del fenomeno dello stress da sovraccarico percepito dal caregiver e le sue dannose conseguenze, sono stati implementati network di sensibilizzazione, formazione, autoaiuto e programmi di diverso tipo per supportare i caregiver e aumentarne la resilienza.
Nell’ambito della psicologia clinica, i programmi più diffusi mirano alla promozione delle risorse del caregiver offrendo spazio di ascolto e supporto sociale, sono rivolti a piccoli gruppi e mirano ad aumentare le capacità del caregiver nel fronteggiare lo stress (coping) e la compassion fatigue (difficoltà emotiva dovuta all’esposizione quotidiana alla sofferenza dell’assistito) promuovendo l’autoefficacia, la connessione con gli altri, la creatività.
Promettenti risultati con significativo aumento della resilienza e diminuzione della compassion fatigue nei caregiver dopo il trattamento, sono stati ottenuti in un breve programma di gruppo (Delaney, 2018) mirato alla mindfulness e alla self-compassion (i.e., capacità di rendersi consapevoli della propria e altrui sofferenza e poterla contenere).
Vi sono evidenze dell’efficacia della musicoterapia, in particolare di programmi di composizione di semplici brani musicali che si sono rivelati efficaci nell’aumentare il benessere del caregiver (Garcia-Valverde et al. 2021), e sono stati anche applicati alla diade caregiver/care-recipient con notevole apprezzamento e vantaggi in termine di riduzione dei sintomi depressivi dell’assistito e diminuzione dello stress del caregiver (Clark et al., 2020; 2021).
Ogni forma di supporto alla persona non può avvenire in maniera isolata dal contesto e dalla comunità in cui questa risiede. Una comunità che ha a cuore il benessere dell’anziano riconosce innanzitutto il bisogno di continuità che preserva il senso dell’identità della persona, i suoi bisogni relazionali, affettivi e di salute. L’età avanzata è caratterizzata da una diversità di abilità e bisogni a cui è possibile andare incontro in diversi modi: ripensando la struttura dei luoghi abitativi così da promuovere la qualità della vita dell’anziano, implementando servizi di assistenza e salute il più possibile compatibili con la vita presso il domicilio e, ove ciò non sia possibile, garantendo strutture residenziali per le cure. La Global Network for Age-Friendly Cities and Communities (2019), istituita dall’OMS per città e comunità a misura di anziano, rappresenta ad oggi lo sforzo più ampio per migliorare l’esperienza dell’invecchiamento nella comunità, obiettivo perseguibile nell’ambito di opportune politiche comunitarie.
L’ambiente fisico delle città può essere pensato per promuovere la qualità di vita dell’anziano, prevedendo ambienti in grado di compensare i cambiamenti fisici e sociali associati all’invecchiamento. Un ambiente residenziale vulnerabile, identificato dall’indice HAVEN (Healthy Ageing/Vulnerable Environment, una misura della compatibilità tra età e caratteristiche dell’ambiente di vita) è associato all’ingresso anticipato nelle strutture residenziali per anziani e a maggior rischio di mortalità (Taylor et al., 2022). Rendere le comunità più adatte agli anziani è dunque un passo necessario per il benessere nella longevità e deve considerare tra gli altri l’importanza per la persona di mantenere un adeguato e stimolante numero di relazioni sociali. Si riscontra infatti un minore declino cognitivo in anziani con relazioni sociali ampie (Evans et al. 2018) ma soprattutto diversificate rispetto a relazioni povere o omogenee (Piolatto et al. 2022). La relazione, l’incontro con l’altro, l’ascolto dato e ricevuto sono bisogni irrinunciabili della persona e della sua identità. L’anziano spesso vede diradarsi le sue frequentazioni e, quasi per pudore, tace il grande senso di solitudine che vive.
Una comunità che ha cura della persona anziana deve tenere conto delle diverse dimensioni e sfumature che modulano il suo benessere, compresi gli aspetti relazionali. Prendersi cura della persona anziana non è solo un segno di civiltà ma anche un sicuro modo per migliorare la vita di tutti, caregiver, famigliari e assistiti, dimostrandosi inoltre efficace per ridurre la spesa pubblica in sanità (Rattinger et al., 2016).
12. Il ruolo dello psicologo nei servizi socio-sanitari
All’interno della comunità e dei servizi, lo psicologo clinico, coerentemente con il modello bio-psico-sociale (Engel, 1977), pone la persona al centro del processo di cura attribuendo eguale importanza agli aspetti riguardanti la salute e a quelli di partecipazione sociale e benessere psicologico, connessi alla storia della persona e al suo contesto di vita attuale. In quest’ottica la psicologia clinica offre conoscenze, strumenti e metodologie utili a gestire gli aspetti psicologici e psicopatologici legati all’invecchiamento, oltre a quelli intrinseci in tutte le dimensioni di cura.
Come abbiamo già visto, tra le competenze dello psicologo clinico rientrano, oltre a quelle psicodiagnostiche, quella di accompagnare l’anziano nell’elaborazione delle perdite e dei vissuti depressivi ad esse connessi e valorizzarne i ‘guadagni’ e le risorse utili a ristrutturare il progetto di vita. In quest’ottica, gli interventi con l’anziano non sono finalizzati esclusivamente alla stimolazione e/o potenziamento cognitivo, ma anche alla valorizzazione e/o riattivazione degli aspetti più strettamente emotivo-motivazionali legati al benessere dell’anziano.
Nella prospettiva di cura che delinea l’arco d’azione della psicologia clinica dell’invecchiamento, le psicoterapie con gli anziani costituiscono un interessantissimo capitolo. Contrariamente a quanto accadeva in passato, sono emersi numerosi strumenti applicabili ed efficaci in grado di fornire cura di supporto o cura approfondita ed intensiva (Cristini, Porro e Cesa-Bianchi, 2011; Spagnoli, 2012; Hepple, Pearce e Wilkinson, 2014). Inoltre, negli anni è aumentata nella popolazione anziana l’ auto-consapevolezza del bisogno di cura corredata da una· serie di soddisfacenti e innovativi risultati (Peirone e Gerardi, 2009): maggiore fiducia nei confronti del terapeuta,· maggiore collaboratività, maggiore efficacia dei risultati. In ragione di tale evoluzione la psicoterapia con gli anziani si è evoluta passando dalla vecchia prescrizione di non fattibilità all’attuale comprovata evidenza di buona efficacia.
Nel lavoro con l’anziano la famiglia inoltre rappresenta una risorsa che va inclusa e valorizzata nel percorso di cura. Come l’anziano, anche la sua famiglia deve essere coinvolta nel processo di cura, ascoltata, capita e aiutata nel processo di adattamento alla nuova condizione del familiare. A tal proposito, i conflitti familiari, non di rado presenti, possono portare al collasso e alla disgregazione del sistema familiare incapace di ristrutturare i legami e adattarsi così ai cambiamenti dei ruoli e delle funzioni del familiare (es., da ‘accudente’ ad ‘accudito’).
Un altro importante ruolo dello psicologo clinico è relativo alla formazione degli operatori sui processi psichici dell’invecchiamento, sulla capacità di leggere i bisogni delle persone anziane in un’ottica multidimensionale e multiprofessionale. In questo contesto, le supervisioni rappresentano uno spazio utile per riflettere sulle difficoltà del personale nella sfera relazionale/emotiva, allenarsi a gestire le reazioni emotive contribuendo a prevenire la sindrome del burn-out frequente nelle relazioni di aiuto. Non per ultimo, sempre più spesso viene affidato allo psicologo clinico il compito di coordinare e integrare la rete dei servizi socio-sanitari seguendo una logica che superi l’enfasi prestazionale – curare la malattia – a favore di una cultura di servizio centrata sulla ‘persona’.
Pertanto lo psicologo clinico, in virtù della sua formazione ed esperienza, può leggere la complessità delle situazioni offrendo una lettura integrata in grado di capire e spiegare i fenomeni che coinvolgono la persona anziana, nonché il peso delle relazioni prossimali e distali nell’adattamento alla nuova condizione.
13. La formazione nella Psicologia clinica dell’invecchiamento
La complessità nonché la delicatezza del lavoro clinico fatto con le persone anziane richiede che i contesti di formazione accademica e d’educazione superiore siano costantemente presidiate con attenzione vigile, e incentrata su evidenze scientifiche consistenti.
Da quanto detto nei precedenti paragrafi, la multi-componenzialità bio-psico-sociale dell’invecchiamento, assieme ai caratteri propri delle coorti, e alle differenze individuali rappresentano i punti di riferimento che gli psicologi soppesano costantemente per la comprensione delle problematiche cliniche e la programmazione di interventi efficaci ed efficienti con le persone anziane.
Per poter sviluppare un tale bagaglio di conoscenze e capacità, la formazione in ambito invecchiamento va rivista. Se da una parte, c’è bisogno che i corsi universitari inizino a fornire conoscenze trasversali relative a tutti i capisaldi del modello bio-psico-sociale (i.e., aspetti cognitivi, emotivi, relazionali, socio-anagrafici, socioeconomici, farmacologici, e agli aspetti legati agli stili di vita), dall’altra parte occorre che si approfondiscano i capisaldi sopra elencati all’interno dei programmi di studio caratterizzanti specifiche lauree magistrali.
Analizzando, infatti, gli insegnamenti accademici elargiti nel corso del 2021 agli studenti delle lauree magistrali, emerge un quadro didascalico della necessità di revisione dei programmi di formazione (Universitaly – Cerca Corsi). All’interno degli 84 corsi di laurea in psicologia (LM-51) che le 40 Università italiane erogano, il numero dei corsi degli insegnamenti il cui titolo si riferiva all’ambito invecchiamento (i.e., anzian* OR invecchiament*) era pari a 19. Se questi numeri vengono confrontati con quelli prodotti dal conteggio degli insegnamenti dell’ambito evolutivo (i.e., “infanz*” OR “svilup*” OR “devel*” OR “educat*” OR “apprend*”) si nota una certa disparità.
In 84 corsi di laurea, nel 2021, gli studenti potevano trovare 149 insegnamenti di ambito evolutivo. Sebbene i calcoli non includano insegnamenti riferibili all’intero ’“arco della vita”, il rapporto tra i due ambiti è di circa otto insegnamenti evolutivi ogni insegnamento in ambito invecchiamento. Dall’analisi emergono anche l’assenza di corsi di laurea in psicologia dell’invecchiamento, mentre ce ne sono otto in ambito evolutivo, e l’assenza di un settore scientifico disciplinare di matrice psicologica riguardante l’invecchiamento.
L’aderenza dei programmi che compongono i corsi di laurea all’ossatura degli ambiti disciplinari appare però ostacolare l’articolazione di una risposta funzionale alle necessità di formazione di una classe di professionisti in grado di rispondere ad una crescente popolazione di utenti, ma, d’altro canto, l’aderenza risponde alle indicazioni internazionali che precettano la combinazione delle conoscenze teoriche e spunti pratici negli studi accademici (UNESCO Institute for Statistics, 2015). È quindi auspicabile una presa di coscienza circa la possibilità che tale disparità possa impattare negativamente sulle risposte che i nuovi professionisti clinici in ambito invecchiamento saranno chiamati a dare in seno al crescente livello di cronicità di una popolazione che sta invecchiando.
Inoltre, negli scorsi mesi i decreti attuativi hanno delineato le nuove lauree abilitanti in psicologia. La prospettiva che appare guidare questa rivoluzione è connaturata alla speranza che la prossima classe di professionisti si prepari al lavoro mentre acquisisce conoscenza. La rivoluzione, però, richiede una riduzione delle ore di studio e acquisizione di conoscenze, modelli e articolazioni di pensiero, a favore di attività professionalizzanti che portano lo studente a incarnare ciò che ha appreso negli anni precedenti e/o ad apprendere mentre lavora. Il rischio che questa rivoluzione si riveli dannosa a forgiare professionisti preparati è alta. Per arginare questa evenienza è auspicabile che i rappresentanti accademici, quelli delle società scientifiche e quelli ordinistici riflettano affinché i nuovi professionisti possano continuare la loro formazione e colmare le lacune che l’operatività farà emergere in sedi formative adeguate. Gli studenti dovrebbero essere così plasmati mediante la pratica, conbeneficio sia per gli anziani sia per chi apprende e cresce fornendo al contempo un servizio. Se attraverso le ore di tirocinio curriculare, il futuro professionista potrà avere un assaggio di ciò che è la preparazione che il mondo del lavoro richiede, la possibilità di frequentare corsi di alta formazione, specialistici ma professionalizzanti, master o corsi di durata annuale, arricchirà o approfondirà il bagaglio di conoscenze necessario a adattarsi alle richieste della professione.
Inoltre, la necessità di professionalizzazione che la nuova laurea porta con sé non deve appiattire la professione a mera esecuzione prestazionale. I futuri psicologi, e in special modo quelli clinici che vorranno lavorare in ambito invecchiamento- che, come abbiamo visto, hanno materialmente un ventaglio di offerta formativa limitato- devono avere la possibilità di poter scegliere se essere occupati operativamente, oppure nel contesto coordinativo, senza però che tale operazione necessiti l’acquisizione di diplomi di psicoterapia. Specializzazioni di durata quadriennale, infatti, rischiano di formare professionisti aderenti al contesto lavorativo futuro solo marginalmente.
In altre parole, il modello formativo dovrebbe essere articolato in modo che, ad un primo livello, vi siano moduli di riflessione personalizzata, ma accompagnata da psicologi con esperienza diffusa nel settore della psicologia dell’invecchiamento per favorire la connessione tra sapere accademico e sapere pratico. A un secondo livello, il modello formativo dovrà sostenere lo specialista attraverso esperienze pratiche guidate nei contesti di intervento in modo che diventi capace di disegnare programmi di ausilio e sostegno, anche per mezzo di soluzioni avanzate nell’ambito della tecnologia. A un terzo livello, si tratterà di investire nella formazione di professionisti in grado di lavorare con modelli specialistici di trattamento della sofferenza psicologica individuale caratterizzante la senescenza, nonché sull’impatto che tale involuzione determina all’interno del sistema familiare e sociale.
In ultima analisi, è necessario ragionare sull’articolazione di carriere che prevedano specializzazioni elevate, ma responsive e capaci di condurre i professionisti fuori dal cortocircuito dell’aspettativa per cui la specializzazione più elevata è quella più capace a far fronte a tutte le necessità.
14. Conclusioni
L’invecchiamento è un processo fisiologico che comporta inevitabilmente una serie di modificazioni fisiologiche, sociali e relazionali che hanno un importante impatto sulla qualità della vita dell’anziano, dei suoi famigliari e del SSN. I sistemi diagnostici che devono definire la presenza di un declino cognitivo e la sua severità fanno riferimento a protocolli, spesso molto diversificati nell’uso degli strumenti e dei criteri utilizzati (si veda Casagrande et al., 2022), e generalmente la diagnosi viene effettuata esclusivamente (o quasi) valutando l’autonomia dell’anziano e le sue prestazioni cognitive. Le dimensioni psicologiche, relazionali e sociali, le sue capacità di adattamento all’invecchiamento e alle modifiche, e spesso restrizioni, che quest’ultimo comporta sono neglette sia nelle procedure diagnostiche sia nelle procedure riabilitative. In questo contesto la psicologia clinica può e deve cercare di rimettere al centro dell’attenzione l’anziano globalmente per garantirgli un vissuto positivo della terza età. Da tali considerazioni nasce tale manifesto che affronta l’invecchiamento da molteplici punti di vista (prospettive teoriche, valutazione multidimensionale, interventi, ruolo dello psicologo clinico nel SSN, formazione) nel tentativo di ridefinire il ruolo centrale della psicologia clinica in quest’ambito.
15. Bibliografia
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