Philip Zimbardo a Napoli, 2019

Philip Zimbardo ci ha lasciati qualche giorno fa, a 91 anni.

L’ultima volta che lo incontrai, a Napoli nel 2019, aveva già 86 anni, ma era in piena forma ed affascinò l’uditorio raccontando le sue teorie più recenti, col vigore intellettuale che lo contraddistingueva e ne ha fatto uno dei personaggi più noti ed amati della psicologia mondiale.

Era celebre soprattutto per lo studio degli anni ’70 sulla violenza che può essere generata in persone “normali” dalle istituzioni violente come il carcere. L’esperimento della prigione simulata negli scantinati dell’Università di Stanford, da cui derivarono anche un libro (The black box) e un film (The experiment), dimostrò che cattivi non si nasce ma si diventa. L’effetto Lucifero, il libro più famoso di Zimbardo, illustrava come certi fenomeni di violenza e crudeltà siano condizionati da dinamiche di gruppo che agiscono sia a livello individuale che sociale.

Questo esperimento resta importante nella storia della psicologia, come gli studi di Milgram sulla obbedienza criminale, anche se entrambi furono criticati per ragioni deontologiche (nessun comitato etico oggi approverebbe questi progetti).

Ma successivamente tanti altri contributi ha dato Zimbardo alla psicologia sociale e non solo, come la prospettiva temporale che ha anche rilevanza in ambito clinico (The Time Paradox), gli studi sulla difficoltà dell’essere “maschi” nella società contemporanea, quelli sull’altruismo, e l’Heroic Imagination Project che sostiene la possibilità di realizzare forme di sano eroismo nella vita quotidiana.

La sua attenzione è stata sempre mirata alla rilevanza sociale della scienza psicologica e delle sue applicazioni per vivere meglio, modificando ciò che ci impedisce di realizzarci come vorremmo, in sintonia e non in contrapposizione con gli altri.

Così aperto e generoso era Phil nella sua vita privata, condotta con la psicologa Christine Maslach che aveva contribuito a fermare l’esperimento di Stanford quando stava per degenerare in modo incontrollabile, e poi diventò compagna della sua vita.

Zimbardo ricordava con emozione ed affetto le sue origini siciliane, contribuendo con finanziamenti e borse di studio per i giovani dei paesini da cui proveniva la sua famiglia. E ricordava i suoi anni da ragazzo immigrato cresciuto nel difficile Bronx, e i lunghi periodi passati in ospedale di malattie infettive dove imparò a leggere. Esperienze che lo avevano fortificato fino a fargli conseguire una laurea, il primo della sua famiglia siculo-americana, e farlo arrivare alla prestigiosa cattedra universitaria: prima a Yale dove diresse il Children’s Test Anxiety Research Project e creò il campo estivo “Head Start-Black Pride” per i ragazzi neri di Harlem. Poi in California, dove fu anche attivista contro la guerra e coautore del “Canvassing for Peace“.

Così mi piace ricordarlo, attivo ed esuberante, come nelle cene napoletane godute insieme, l’ultima delle quali sul terrazzo della collega Caterina Arcidiacono in cui apprezzò molto mozzarelle e vino campano, parlando di progetti ulteriori di ricerca, oltre che di sport e jazz di cui era appassionato. Come se i quasi novant’anni non gli pesassero, ma anzi fossero da stimolo per continuare con l’entusiasmo degli anni giovanili. Maestro ed esempio per le nuove generazioni di psicologi, che dai suoi insegnamenti possono trarre spunto e forza per realizzare una psicologia a servizio del benessere sociale.

Santo Di Nuovo