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Bruno Bara ci ha lasciato il 7 novembre, inaspettatamente, a 74 anni e nel pieno di attività scientifiche e culturali che continuava anche dopo il pensionamento.
Medico, specialista in psicologia clinica, allievo e collaboratore di Marcello Cesa-Bianchi e poi di Philip Johnson-Laird, mezzo secolo fa introdusse in Italia studi pioneristici sul ragionamento e sull’intelligenza artificiale ancora oggi citati a livello internazionale.
Nelle diverse università in cui aveva insegnato, da Milano a Trieste, da Firenze a Torino, ha formato generazioni di psicologi esperti in neuroscienze e in scienze cognitive, che ne hanno apprezzato le capacità didattiche oltre che scientifiche. Molti di essi sono giunti ai massimi gradi della carriera accademica e sono orgogliosi di appartenere alla sua “scuola”.
Da grande maestro, è stato tra i pochi a saper congiungere al meglio la ricerca cognitiva e neuroscientifica con quella clinica: dalla neuropragmatica alla riabilitazione cognitiva, all’approccio terapeutico cognitivo e costruttivista. È stato presidente della International Association for Cognitive Science, ma anche direttore scientifico di scuole di psicoterapia. Professore di psicologia generale, era stimato anche come psicologo clinico, dimostrando concretamente quanto siano improprie le demarcazioni settoriali che caratterizzano la nostra vita accademica.
Fra i tanti libri che Bruno mi mandava e che custodisco con rispetto ed affetto, oltre i manuali di psicoterapia cognitiva, ne segnalo due che testimoniano la intelligente e acuta curiosità verso temi che i ricercatori sperimentali spesso evitano perché troppo complessi, quasi filosofici.
Il primo è il libro sulla “dinamica del cambiamento e del non cambiamento”, in cui si concentrava sulle modifiche degli stati cognitivi, emotivi e fisici, “che accadono quando ci sembra di aver migliorato il nostro modo di stare nel mondo, con la gente e con noi stessi”. La psicoterapia è un modo per aiutare questo cambiamento, superando la spinta a non cambiare che è tipica delle patologie psichiche.
L’altro intrigante libro che voglio qui ricordare, “Dimmi come sogni”, si conclude con questa definizione di felicità: “una felicità non idealizzata, ma alla portata di essere umani imperfetti e incompleti come siamo: combacia con l’accettarsi senza inganni, giorno per giorno. Accettarsi non significa farsi piacere lo sgradevole, ma permettere anche a ciò che non piace di esistere, e poi lasciarlo andare. Una tale felicità non si accumula, come non si accumulava la manna che ricevevano gli ebrei nel deserto: va consumata fresca, goduta adesso così com’è”. Una sorta di mindfulness esistenziale, che Bruno applicava nella sua vita e che tutte le persone di buon senso dovrebbero condividere. Con una azzeccata metafora in uno dei suoi libri si descriveva come “un cuoco che cerca di mescolare il dolce con il salato”. Per fare questo non è necessario essere grandi cuochi stellati, basta conoscere e integrare al meglio gli elementi che si hanno a disposizione, e questo Bruno lo ha fatto sempre in modo eccellente.
Persona di grandi meriti, mai ne ha fatto sfoggio. In uno scambio di mail di qualche anno fa, mi scriveva, a proposito del narcisismo: “Narcisista è chi si crede grande essendo piccolo, non chi è giustamente consapevole del proprio merito.” Bruno era consapevole dei suoi meriti, anche se non se ne vantava. Perché non era un narcisista, ma un grande studioso, un grande clinico, un grande uomo.
Chi lo ha conosciuto, chi lo ha avuto come docente, o come terapeuta, o come collega, o semplicemente come amico, sa bene quanto valeva e quanto la psicologia italiana perde con la sua morte, pur conservando per sempre quanto ha ricevuto dalla sua opera scientifica e culturale.
Santo Di Nuovo
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